Le pestilenza hanno accompagnato l’uomo per tutta la sua esistenza. Dalle piaghe d’Egitto, alla peste Antonina fino ai nostri giorni. Anche nella storia dell’arte abbiamo raffigurazioni che trattano le pestilenze, in particolare nella pittura.
Come raffigurare il dolore umano che colpisce l’uomo durante la peste?
Se pensassimo ad un’immagine dolorosa ci verrebbe in mente la statua del Laocoonte. L’espressione massima di tutti i dolori umani, quella di un padre che assiste inerme alla morte dei figli divorati da un mostro marino sulla spiaggia di Nettuno. Cosa ci ha lasciato invece la pittura? Sembra quasi che attraverso le arti figurative sia impossibile ritrarre il dolore umano e di conseguenza, la peste. Certo ritrarre il bello è più soddisfacente, ma si potrebbe ottenere anche un ottimo risultato con il brutto se solo si restasse fedeli alla realtà. E’ lo stesso Lessing ad affermare, nel suo scritto sul Laocoonte, che la peste è un ottimo argomento di pittura.
La peste Antonina
Una delle prime pesti raffigurate nella storia dell’arte fu la peste Antonina. Fu la più famosa epidemia del periodo imperiale, che colpì inizialmente le truppe romane impegnate in una guerra in Partia. Le stesse truppe che al ritorno la riportarono a casa. Molto probabilmente si trattava di vaiolo o di morbillo. Le conseguenze furono talmente gravi che si pensa possa aver segnato l’inizio della crisi dell’impero Romano.
L’opera di Eugene Delacroix, dal titolo Ultime parole di Marco Aurelio, fu realizzata nel 1844 e ritrae gli ultimi istanti di vita di Marco Aurelio colpito dalla peste. Il pittore francese Eugène Delacroix aveva una grande ammirazione per la dottrina stoica e in particolare per la figura dell’imperatore Marco Aurelio. Nel quadro si esprime l’ammirazione dell’artista francese nei confronti dell’imperatore romano. L’opera mostra l’imperatore sul letto di morte, attorniato dai suoi amici e dal figlio Commodo (è il giovane con la toga rossa accanto all’imperatore), che non sembra prestare attenzione a quanto il padre gli sta dicendo. Lo sguardo dello spettatore, più che dalla figura di Marco Aurelio, è attirata dal rosso brillante della toga di Commodo, colore che affascinava Delacroix, soprattutto dopo il suo viaggio in Nordafrica del 1832.
La peste nera nell’arte del Trecento
Nel Trecento l’Europa venne colpita dalla peste nera che decimò un terzo della popolazione mondiale. Fu la più grande pandemia dell’umanità. La morte improvvisa di così tante persone ebbe nella società delle conseguenze gravi dal punto di vista psicologico. L’impotenza e il terrore davanti alla morte nera generava comportamenti isterici. Per scacciare via la paura della morte e la pandemia cominciarono a svolgersi dei rituali religiosi dove delle bande di penitenti che andavano di città in città mortificando corpo e anima per placare “la collera divina”.
Non solo, nel Medioevo per scacciare la paura della morte si balla con lei nella danza macabra. Solitamente era la morte raffigurata al centro a dirigere il gran ballo, con addosso una corona. Ecco che nella storia dell’arte compaiono raffigurate delle danze tra vivi e scheletri, in fila in una interminabile farandola per lasciare la vita a passo di danza.

Le prime raffigurazioni pittoriche della Danza Macabra risalgono ai primi decenni del Quattrocento. In origine nascono come balli rituali di carattere religioso che avevano lo scopo di ricordare ai fedeli la caducità della vita e la vanità delle cose terrene dinnanzi alla Morte. Per tutto il Quattrocento nei contesti religiosi si ballavano tali danze esoteriche. Si trattava dei Chorea Machabaeorum, le “Danze dei Maccabei” che per cambiamenti linguistici divennero poi “Danse Machabré”, da cui deriva la parola macabro.

In provincia di Bergamo troviamo un interessantissimo affresco dedicato al tema della danza macabra. Si trova sulla facciata dell’Oratorio dei Disciplini a Clusone ed è di grande importanza nella storia dell’arte, perché vi si trovano presenti tutti e tre i temi del macabro sviluppati dall’iconografia tardomedievale, dal Duecento al Quattrocento: l’Incontro dei tre vivi e dei tre morti, il Trionfo della Morte, la Danza macabra.

Nella storia dell’arte troviamo parecchie rappresentazioni della peste nei panni della morte, un terribile scheletro che falcia cadaveri umani. Insieme alla danza macabra, un’altra tematica preferita nella storia dell’arte era il Trionfo della morte (per maggiori informazioni sull’iconografia della morte leggi l’articolo Come gli antichi raffiguravano la morte di Lessing).
L’affresco di Palazzo Abatellis a Palermo riproduce il tema del trionfo della morte molto diffuso nel Trecento a causa della peste. La morte irrompe in un lussureggiante giardino, cavalcando il suo cavallo scheletrico. Subito inizia a lanciare frecce letali che colpiscono personaggi di tutte le fasce sociali, uccidendoli.

La peste non faceva discriminazioni sociali, colpiva sicuramente i poveri ma anche molti nobili. Non a caso in basso sono ritratti i cadaveri delle persone già uccise, tra cui imperatori, papi, vescovi, frati (sia francescani che domenicani), poeti, cavalieri e damigelle. Il dolore è rappresentano attraverso la smorfia di ciascuno di loro.
A sinistra si trova il gruppo della povera gente, che invoca la morte di interrompere le proprie sofferenze, ma viene crudelmente ignorata. Il messaggio che traspare dall’opera è che davanti alla morte siamo tutti uguali. E lo fa non rasserenandoci con la promessa di un paradiso ma con un linguaggio cronistico freddo e distaccato, di chi la morte l’ha vissuta e accettata. Nei volti degli effigiati incontriamo lo sdegno e non solo. C’è l’incredulità della dama superba e sofisticata che, trafitta in seno da una freccia della morte, comprende un momento prima di abbandonare la vita di essere proprio come tutti gli altri e che i suoi effimeri piaceri sono giunti a conclusione. Infine un cavaliere che muore rivolgendo al cielo una smorfia di rabbia, e forse un’imprecazione. Davanti alla morte siamo tutti uguali, certo, ma il nostro modo di viverla e affrontarla cambia.
Il Trionfo della Morte viene descritto da Giorgio Vasari, come una delle attrazioni del carnevale di Firenze del 1511:
«Era il trionfo un carro grandissimo tirato da bufoli tutto nero e dipinto di ossa di morti, e di croci bianche, e sopra il carro era una morte grandissima in cima con la falce in mano, et aveva in giro al carro molti sepolcri col coperchio, et in tutti que’ luoghi che il trionfo si fermava a cantare s’aprivano et uscivano alcuni vestiti di tela nera, sopra la quale erano dipinte tutte le ossature di morto nelle braccia, petto, rene e gambe, che il bianco sopra quel nero, et aparendo di lontano alcune di quelle torcie con maschere che pigliavano col teschio di morto il dinanzi e ’l dirieto e parimente la gola, oltra al parere cosa naturalissima era orribile e spaventosa a vedere. E questi morti al suono di certe trombe sorde, e con suon roco e morto, uscivano mezzi di que’ sepolcri, e sedendovi sopra cantavano in musica piena di malenconia quella oggi nobilissima canzone:
(…)
Morti siam come vedete,
così morti vedrem voi.
Fummo già come voi siete,
vo’ sarete come noi…»
Pieter Bruegel il Vecchio realizza l’opera il Trionfo della morte nel 1562, ispirandosi all’opera di Palazzo Abatellis a Palermo e alla danza macabra. Torna al centro del dipinto la morte, rappresentata da uno scheletro, cavalca un cavallo magrissimo, e solleva in alto la falce con la quale miete sue vittime. Ad essere colpite sono cosi persone di ogni ceto e classe sociale. Lo stile di Pieter Bruegel nella rappresentazione dell’opera è tipico dell’arte Nord Europa, dove ogni spazio è riempito da con oggetti o dettagli. Le figure umane inoltre sono dipinte con fisionomie grottesche ed espressioni spaventose che descrivono atmosfere espressionista. Ciascuno vive gli ultimi istanti di vita prima della morte a modo suo. C’è chi, come la coppia di amanti, in basso a destra, simbolo di peccato e lussuria, è completamente estranea a ciò che avviene intorno e alla sorte che dovrà inevitabilmente subire.
Religione e peste nell’arte del Seicento
Ciò che è stato raffigurato in buona parte della storia dell’arte sulla peste a partire dal Cinquecento sono state le figure di magnanimi santi e religiosi in atto di scacciare le pestilenze per proteggere la popolazione. Ne sono un esempio i santi Rocco e Tecla.
L’opera Santa Tecla libera Este dalla pestilenza di Giambattista Tiepolo ritrae il momento di intercessione di Santa Tecla presso Dio Padre per la cessazione della peste che colpì duramente la città d’Este nel 1630. Vediamo raffigurata la peste correre via cacciata dal Dio padre davanti una Santa Tecla dallo sguardo supplichevole.
Ora ci spostiamo a Napoli dove tra il 1657 e il 1659 Mattia Preti realizzò degli ex voto in occasione della peste del 1656. Vista l’emergenza era necessario porre la città sotto la protezione della Vergine Immacolata e San Francesco Saverio, che in vita aveva dimostrato miracolose capacità taumaturgiche. Gli ex voto di cui stiamo parlando consistevano in sette affreschi per le principali porte di Napoli. Dei sette affreschi oggi ne resta solo uno: quello che sormonta la Porta di San Gennaro.
Nella parte superiore dell’affresco rimanente sono ritratti la Vergine Immacolata con il Bambino in braccio, affiancata da san Gennaro, san Francesco Saverio e santa Rosalia. La presenza della Vergine con bambino in questa scena si spiega con la grande devozione che il popolo napoletano aveva verso la madre di Gesù. San Gennaro invece, è l’antico vescovo e martire, protettore della città di Napoli, a cui il popolo napoletano è devoto. Il culto di Santa Rosalia invece deriva dalla vicina Sicilia, dove la santa si era guadagnata fama di protettrice dalla peste durante l’epidemia che colpì Palermo nel 1624. Sotto i santi invece si apre uno scenario sconvolgente. Vediamo i corpi senza vita degli appestati, lasciati morire sugli scalini della città con i monatti intenti nel loro triste lavoro. Di questa parte dell’affresco restano dei significativi bozzetti dove si può vedere lo studio fatto da Mattia Preti per realizzare i malati e i cadaveri.
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