Ci troviamo nella regione nord dell’Australia, la famosa Arnhem Land, dove due antropologi nel 1946 iniziarono una ricerca durata due anni volta a reperire oggetti di uso quotidiano tra le popolazioni aborigene del posto.
Questi ritrovamenti sarebbero poi stati esposti in Australia in due mostre importanti dal titolo L’Arte di Arnhem Land nel 1949 a Sydney e Pitture su corteccia e figure intagliate in Arnhem Land nel 1957 a Perth.
Ad abitare la zona c’è la popolazione degli Yolngu con i quali i due antropologi Catherine e Ronald Berndt cominciarono uno scambio di interazioni. Le due mostre hanno segnato un momento importante nella storia dell’arte australiana, ossia il passaggio del reperto da materiale etnografico a testimonianza intesa come opere d’arte.
Un passo del genere fino ad allora non era mai fatto. D’altronde le esibizioni dei coniugi Berndt vengono definite «mostre di migrazione», per aver spostato i manufatti primitivi da contesti etnografici, a spazi artistici contemporanei.
L’arte australiana degli anni Settanta
Si parla di contemporaneo perché lo spirito dell’epoca, della critica d’arte moderna, tendeva a leggere in ciascun manufatto aborigeno delle caratteristiche riconducibili all’arte moderna. Gli elementi di somiglianza potevano essere rintracciati non solo nelle linee, nei colori, nelle forme ma anche nella possibilità di leggervi dei riferimenti agli artisti contemporanei. Attraverso il lavoro degli storici e critici d’arte l’oggetto veniva successivamente “lavorato” ed il risultato era un’opera d’arte integrata nella società moderna. Siamo negli anni in cui le avanguardie artistiche rispolverano l’arte primitiva, pensiamo a Pablo Picasso, Henri Matisse, Amedeo Modigliani e molti altri.
L’interesse che ne deriva, trasformerà gli oggetti di uso quotidiano della popolazione aborigena degli Yolngu in autentiche opere d’arte australiane. Questo spirito, che possiamo chiamare integralista, degli anni Settanta, andava a cozzare con il precedente che invece separava la modernità dalla vita degli aborigeni, perché collocavano le popolazioni aborigene australiane in un tempo separato. Non solo, gli oggetti venivano perfino considerati privi di inclinazione artistica ed atti solo ad un uso utilitaristico.
L’inserimento di didascalie per meglio comprendere il manufatto aborigeno
Ad aiutare i due antropologi in questa fase di transizione ha contribuito, oltre all’inserimento dell’oggetto in una galleria d’arte privata, la scelta di inserire una didascalia che desse delle informazioni utili a contestualizzare l’oggetto. Per esempio «n.1 Laintjung, un essere ancestrale; n. 2 spirito femminile, Sultana». Vi erano scritti brevemente i clan di appartenenza, i gruppi linguistici, date e luogo, richiami stilistici, tutte informazioni che aiutavano ad avvicinare il pubblico delle mostre d’arte al mondo dell’etnografia. L’uso di tali accorgimenti è stato un aspetto molto importante perché ha aiutato il pubblico a comprendere la complessa rete di relazioni sociali, culturali e rituali che collegava ogni artista la clan, al territorio e alle storie.
Significato culturale e sociale dei manufatti
Catherine Berndt si occupò della cultura femminile ma purtroppo i cestini e i tappeti intrecciati, opera di donne, non ottennero lo stesso interesse dei prodotti realizzati dagli uomini.
Tuttavia, ciò che interessava ad entrambi era concentrare l’attenzione non sulla bellezza dell’oggetto esposto ma sul suo significato e nel suo uso.
Molti motivi decorativi e molti oggetti sono belli. Dimostrano un senso di equilibrio, un apprezzamento dell’uso della linea e del colore che faranno appello al senso estetico dell’osservatore. Ma dal punto di vista antropologico quello che è ancora più importante è il loro significato culturale. Qual è il significato di questi oggetti per gli artisti e per chi li guarda? Come vengono usati, che ruolo hanno nella vita degli Aborigeni? Cerchiamo di vedere questi oggetti e queste decorazioni nel loro contesto, e di comprenderne il significato sociale e culturale. Quello che è importante è il significato; tanto meglio se il lavoro compiuto è esteticamente gradevole.
L’arte può aiutarci ad apprezzare l’aspetto estetico certo; grazie al senso plastico, i colori, le linee noi percepiamo la bellezza di ciò che abbiamo davanti, ma allo stesso tempo è l’etnografia che ci fa leggere il vero significato sociale e culturale delle cose, senza la quale la nostra conoscenza sarebbe lacunosa.
Nei primi anni del Novecento l’interesse delle avanguardia artistiche occidentali erano incentrate sulla scultura aborigena mentre le pitture su corteccia non venivano considerate. Con l’avvento della pittura astratta anche le pitture su corteccia cominciano ad essere intese come forma d’arte. Si diceva che Paul Klee probabilmente avrebbe apprezzato questo tipo di decorazioni pittoriche. Ma Ronald Berndt era contrario all’inclusione della pittura su corteccia nella categoria dell’arte astratta, perché dovevano essere considerati riferimenti al mondo umano, naturale e mitologico.
Da oggetto indigeno ad opera d’arte
Durante la mostra ottennero molto successo le figure intagliate collezionate da Ronald Berndt. Come egli ci racconta queste statuette erano state donate dalla comunità Yolngu.
Per molti mesi rimanemmo accampati vicino alle tribù, imparammo la loro lingua, studiammo le loro usanze e la loro mitologia, li impiegammo come cacciatori e mangiammo il loro cibo – wallaby, emu, pesce e bacche – e alla fine ci fu finalmente permesso di partecipare alle cerimonie segrete. Sapevamo che queste statue sacre non potevano essere vendute o comprate, ma siccome avevamo dimostrato tanto interesse alla fine ce ne furono offerte alcune in dono. Dal canto nostro rispondemmo secondo l’uso locale con doni di farina, tè, zucchero e tabacco. Questo genere di statue non era mai stato scoperto dall’uomo bianco prima perché appena sono state usate nelle cerimonie vengono interrate in pozzi e lasciate a marcire lentamente.
Si può ben capire attraverso la testimonianza di Ronald, il processo che porta l’oggetto indigeno a diventare opera d’arte. La decisione di donare le figure intagliate a Berndt era il risultato di un desiderio indigeno. Ed è stato grazie alla testimonianza di Berndt, al fatto di aver narrato la storia di questi oggetti e della loro localizzazione, che viene attribuito un senso di veridicità e unicità agli oggetti, altrimenti non compreso. L’autenticità è data dal tempo in cui le popolazioni vivono; un tempo lontano dal nostro. Infatti la regione di Arnhem a partire dal 1931 venne proclamata riserva aborigena con ingresso limitato solo alle società missionarie. L’isolamento dai contatti esterni e dal progresso ha assicurato loro purezza incontaminata e la conservazione delle tradizioni.
Conclusioni
Per capire un’opera d’arte aborigena bisogna prima conoscere la vita sociale della popolazione, dove viene prodotta e perché. Attraverso questo processo di identificazione, assegnando delle categorie, l’oggetto è in grado di diventare un’opera d’arte.
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